Nel lunghissimo tempo dei fratelli Zamperetti don Emilio e don Francesco, la rocca fu
sempre e solo "la canonica".
Al pozzo del cortile si attingeva il necessario per le famiglie della Piazza nei tempi
di siccità;mio nonno fornaio diceva che l'acqua della canonica dava al suo pane il
profumo del sole.
La perpetua Maria calava l'anguria col secchio di rame e noi chierichetti, dopo le
Sante Funzioni della Festa di Santa Eurosia, in luglio, avevamo il premio di una fetta
freschissima. Don Emilio, L'Arciprete, era severo e silenzioso. Predicava senza
pronunciare le finali delle parole e noi, irriverenti e felici, gli facevamo il verso
"Quest giorn festos...".
Appena più giovane il fratello, don Francesco era la soavità: "un santo",
si diceva. Quando ormai vecchio rimase solo, fu nominato a sua volta arciprete. Venne ad
aiutarlo un frate che riportò la parrocchia ai rigori "di una volta". Allora
don Francesco per non mortificarlo, chiese al vescovo di nominare un nuovo parroco.
Fu così che nel 1976 arrivò don Ernesto Dalla Valle. L'esile montanaro di Altissimo
aveva sulle spalle la storia di tormentate "punizioni", che nell'ambiente si
chiamano "trasferimenti". Era passato anche da quelle "parrocchie di
disciplina" dalle quali si usciva o di nuovo laici oppure domati.
Per Castello fu la Primavera. "La rocca è sempre aperta, di giorno e di notte: io
vi cerco, ma cercatemi anche voi", diceva. "Meno rosari e più amicizia",
raccomandava lungo le contrade: "Dite insieme un'Ave Maria, poi parlate tra voi con
sincerità". Famiglia per famiglia, giorno per giorno, incontrò tutti. Rinnovò le
tenerezze popolari, le feste dimenticate, le processioni, i canti.Ma inventò anche il
futuro con i salmi di Turoldo, con le liturgie creative, i nuovi inni, i cantici del frate
poeta; e confermò ogni gesto, ogni suono nella vivacità dei giovani. Le messe traboccavano
di gente nella grande chiesa sul poggio."La mia inquietudine nella fede
è la vostra sicurezza: aiutiamoci!", insisteva nelle prediche.
Il dieci gennaio del 1984, don
Ernesto scivolò sulla neve del Monte Marana, alto sulla
valle. Morì tra le braccia di don Emilio Piazza, suo compagno di seminario e di camminate
nei mattini di sole.
Venne quasi subito don Federico Marcazzan: giovane, riservato, un poco timido. Anche
don Federico, pur non essendo irrequieto come il fratello "tonezzano", aveva un
passato di movimento. Buon segno, questo. Vennero da Schio "i suoi ragazzi" con
chitarre e batterie a proporci una messa, ma noi castellani eravamo già oltre. Secondo le
usanze diocesane tentò qualche diffuso meccanismo, come l'esposizione dei cartelli con
scritte settimanali; ma noi, ancora, eravamo più avanti.
Veronese di origine, ricco di saggezza contadina, allargò allora le braccia alla
Primavera di Castello accettando anche la difficile convivenza con la nostra disperata
memoria per il suo predecessore. Ed è stato il tempo della serenità operativa. La grande
chiesa aveva bisogno di importanti lavori, dal tetto fino agli ultimi intonaci. Ed ecco
l'Arciprete con abiti operai a far da manovale ai muratori esperti sulle passerelle
dell'immensa impalcatura. Così: a costruire sul costruito, a conservare, a rispettare.
Così: umilmente, generosamente, delicatamente. Come per le anime. Dieci anni di
donazione.
Ed eccoci, dal 1994, con questo musicista diplomato al conservatorio che, per servire
interamente la parrocchia, ha lasciato un posto di ruolo nelle scuole statali. Ha un nome
che sembra un vocalizzo, don Alvidio Bisognin. "Sono incuriosito dai salmi di
Turoldo", ha dichiarato subito con quella erre di Brendola che probabilmente aveva
anche Santa Bertilla. Gli sono piaciuti e ora li intona con noi, meglio di noi. "Chi
canta prega due volte", dice spesso Sant'Agostino, e qualcuno penserà che sia
finalmente una illuminazione uscita dagli uffici diocesani preposti alla liturgia.
La rocca scaligera di pietra nera è ancora canonica, ma quando si sale oltre il
portone, si va ormai, e definitivamente, "in rocca". Don Ernesto abitava al
secondo piano; al primo rimaneva don Francesco. Insieme recitavano il breviario. Anche don
Federico fece in tempo a pregare con "il santo". E quando rimase solo sistemò
nelle stanze vuote una bella famiglia di ghanesi disposta a nuovi lavori. Un bell'esempio
per tante canoniche. In rocca, con don Alvidio hanno fatto subito tavola comune don
PierLuigi, don Michele e don Giuseppe. Ultimamente saliva anche don Giacomo da Ognissanti.
Con l'ispirazione dell'architetto Renata Fochesato, fantastica professionista di
origini castellane, don Alvidio sta ora scoprendo dentro il suo castello spazi
impensabili: due grandi, antichi saloni sovrapposti, fino al sottotetto. E già si pensa
alla loggia, una specie di foresteria. La grande piazza davanti alla chiesa è stata
restaurata con un progetto comunale approvato frettolosamente dalla Sovrintendenza.
L'Arciprete è riuscito a contenere il disappunto della gente esponendosi coraggiosamente
nelle critiche. Un uomo senza paure, che lavora instancabilmente, che coinvolge nella fede
tutte le età. E nelle domeniche, tra canti e suoni e preghiere, la chiesa arcipretale non
conosce vuoti di castellani.
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