Io non posso nascondere la felicità per ciò che vedo e sento
in questi giorni che intonano l'autunno dell'anno
millenoventonovantanove.
I merli di sassi e di mattoni che dalla piazza si notano sulle alte mura, merli appena disegnati, ritrovati come una
piccola memoria nel vento dei nostri segreti desideri. Le pietre ora sicure, cementate dalla tenacia di un prete che è venuto a ricordarci l'impegno di custodi della storia,
impegno da sempre trascurato per la pigrizia dell'abitudine.
E finalmente la libertà di entrare dal portone, della stretta porta sotto le guide, le profonde scanalature del ponte
levatoio che si alza e si abbassa nelle nostre fantasie, nei pensosi racconti dei filò.
La meraviglia dei cortili, dove entravamo timorosi nell'adolescenza a scoprire il misterioso silenzio dell'abbandono,
del mai espresso impedimento che poteva perfino diventare ebbrezza della violazione.
E sapevamo ben poco degli arcipreti, ma più per rispetto che per mancanza di attenzione. I nostri cari sacerdoti, che
avevano per sostentamento l'acqua del pozzo, il quarentese d'uve mescolate in vini
poveri e senza nome, i grani e le farine rimaste nei setacci, le uova alla
benedizione delle case e "le graspie", acquette colorate dell'ultima spremuta al
torchio, dissetanti d'estate, permesse anche ai bambini.
Avevamo però, questa sì, e sempre abbondante, i nostri pastori, la ricchezza delle anime in una terra di fede profonda,
dove la tenerezza delle devozioni si chiamava, e ancora si chiama, seppure in confuse mescolanze
di aggiornate feste, la Sacra Spina, reliquia nascoste in tabernacolo, e Santa
Eurosia, giovane martire protettrice dei raccolti con il campanone a lei intonato, alto e imperioso a spandere suoni per
allontanare le tempeste.
Ora i cortili respirano sulle pietre antiche, sui camminamenti dei passi
vigilanti, ed è perfino praticabile, abitabile in ariose stanze e ballatoi, come
quando arrivavano scudieri o menestrelli al seguito dei nobili reggenti, la foresteria appoggiata
all'alto muro sopra il borgo, il più sicuro e forte, collegato una
volta da piani e stalle e piccole caserme alla Porta Cisalpina.
Ora si salgono i ripidi gradoni di pietre, segnate dai dimenticati timori e
dalle riverenze, per entrare liberi negli spazi che dovranno diventare fucina delle armoniose speranze
comunitarie, certezza del futuro, luogo di chi vorrà capire, accettare e vivere meglio il tempo che ci opprime con i riti
organizzati dalla furia dei consumi.
E nei saloni che non credevamo possibili, che erano stati invasi o cancellati dalle prementi necessità dei tempi anche
recenti, sciogliere a piena voce, a piene mani, a cuori innamorati, quella cultura dei nostri padri che ancora ci
accompagna e che fingiamo di non conoscere per non doverla continuare.
La Rocca, la Canonica. Abbiamo cominciato a chiamarla Rocca appena negli anni di don Ernesto Dalla Valle, il prete
della novità e del coraggio. L'uomo delle montagne, il tuono atteso a liberare la pioggia fertile per le anime impigrite.
Ma don Ernesto arciprete è rimasto per sempre sul Monte Marana in un mattino di gennaio del 1984.
Prima c'era la mitezza celestiale di don Francesco Zamperetti, fratello di don Emilio, altro arciprete prima di lui, forte e
silenzioso, don Emilio, severo, che predicava con sillabe intricate, che turbava - ed era invece
tanto buono - perfino i nostri giochi, le nostre corse sulla piazza, tra gli
ippocastani.
Ah, la piazza, come l'hanno umiliata, ora, perfino violentata con sassi di riporto piantati male nella sabbia mobile e
profiletti bianchi senza storia. Si fatica perfino a camminare sulla lugubre distesa di scadenti cocci.
E i lampioni sfacciati, da passeggiate balneari, mortificano le notti del perduto silenzio. Le auto diventano rombi
insopportabili sulla sconnessa corsia di passaggio.
E non va certo chiuso il traffico, no, per salvare queste sciocchezze, perché
la gente qui ci vive e ci lavora, e
vorremmo ritrovare anche gli antichi mestieri come melodie riportate dagli stormi in migrazione.
Ma la Rocca, sì, la Rocca. Noi delle generazioni tra le due guerre l'abbiamo sempre vista e chiamata la Canonica.
Chi pensava mai che fosse un vero castello? Chi si domandava se fosse o no sicuro?
"La specola la pare un poco piegata, stamattina: guarda le colonnine che non sono tanto dritte", diceva affettuosamente,
quasi scherzando, mio nonno fornaro, dopo i temporali. Era sempre il primo, dalla piazza, a vedere
il sole spuntare dalle colline beriche, sopra Brendola.
E nei pensieri della gente c'era soprattutto il premere del vento a intaccare la forza dell'imponente costruzione, la
Canonica, vista sempre e solo come casa dell'arciprete, anzi, dell'ansiprete,
perché il dialetto
percorreva "le mure" come unica lingua della comunità, e i maestosi alberi di "castagne
matte", ora mortificati da una potatura innaturale, erano solo "le piante" con i fiori a grappolo rovescio sboccianti nel
profumo amaro, immancabili tra la Pasqua e il tempo cantato dei Fioretti.
Anche don Federico, giovane arciprete di stile veronese, diceva "in Rocca" per andare "a casa". E nei suoi recenti, brevi
anni di Castello - perché, una volta, i sacerdoti venivano dimenticati dalle curie, mentre ora vengono
tormentati in spostamenti affinché non si affezionino nemmeno alle stagioni
- ha ritinteggiato la chiesa illuminandola anche troppo. Ma era un contadino delle colline di là, testardo e solitario, con
la voce in timbro chiaro, dalla bontà più disarmante.
Gli abitatori della canonica sono sempre stati, magari con una "pepetua" anziana e un po' scontrosa - quasi senza
nome, tutta casa e chiesa, - sono stati sempre uomini dalle mani consacrate a Dio.
Don Federico ha ospitato, offrendo loro il lavoro della manutenzione e del servizio, una famiglia di immigrati africani;
un gesto d'amore, di cristiana disponibilità che molto raramente si riscontra nelle nostre parrocchie vicentine.
E ora aspettiamo i pellegrini. Saranno giorni lunghi di soste e di passaggi con gente sconosciuta. Anche a Santa Maria
dei Mistrorigo si fermeranno i passi degli oranti che cercheranno i nostri sorrisi tra Monte Berico e la Pieve con la
Grotta di fra' Claudio. A Santa Maria si andava a scoprire il presente della poesia e i vini come segreti di
famiglia. Il
Nocino dei frati fermentato da Gustavo e intorno il parco dei cipressi con la resina della nobile, compiaciuta malinconia.
Non posso allora tacere questa felicità che viene a ravvivare i miei tanti ricordi castellani senza toccare alcuna nostalgia,
incartato dai merli e dalle pietre che ora sembrano appena ordinate dagli antichi mastri. E' un'armonia inattesa che
stordisce il tempo già pensoso alle mie mani. Come se giocassi ancora con gli amici in arrampicate al torrione di
levante, dove i ciuffi dell'erba muraiola nascondevano i nidi delle tortore.
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